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Papa Francesco se ne frega degli schemi benpensanti dei giornali. Per lui la Chiesa è una vita

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Avete visto le scene del Papa a Rio, no? Braccia aperte a ricevere chiunque gli si parasse davanti. Baci per donne e piccini. E mate con il primo che dalla folla gli allungasse cannuccia e beverone. E così, raccontano le cronache dei giornalisti al seguito, sarà stata la Gmg carioca una «Woodstock per conquistare il gregge perduto» (Repubblica), oppure un vero e proprio “espaldarazo”, come ha sognato El País, con questa sua bella illusione che il Papa sia volato in Brasile per «un riconoscimento degli indignados»? «Sulla spiaggia Francesco vara la rivoluzione della tenerezza» (Corriere della Sera) o «la visita papale ha gettato un cruda luce sull’incompetenza di politici a organizzare in modo trasparente ed efficace i Mondiali di calcio del 2014 e le Olimpiadi del 2016» (Le Monde)? Si è fatto pellegrino per esortare la gioventù a lottare contro la corruzione (Der Spiegel, New York Times) o per dimostrare che «sembra, addirittura, credere al Libro» (Vittorio Zucconi)? Infine, «da autentico papa dei poveri e dei giovani» Francesco ce la farà a spingere «l’antica chiesa di Roma a sciogliere le proprie giunture e a porsi come “facilitatrice” della fede invece che come “controllore”» (Luigi Accattoli)?

Detto in qualunque modo sia stato scritto dai giornali, è chiara la difficoltà a percepire che la prima e forse unica cosa che questo principiare di pontificato vuole anche fisicamente dire a tutti è che la Chiesa non è una delle organizzazioni benefiche o malefiche del pianeta. La Chiesa è una vita. Un modo di essere uomini. Non lo si fosse ascoltato mai prima del viaggio in Brasile, lo si poteva capire di schianto vedendolo parlare ai giovani argentini, nel mentre diceva basta «all’eutanasia culturale» e a tutto il resto per cui a un certo punto Francesco si è voltato verso vescovi e cardinali scusandosi per l’irruenza delle sue parole. Di parole come «voglio che si esca fuori, che la Chiesa esca per le strade, voglio che ci difendiamo da tutto ciò che è mondanità, immobilismo, da ciò che è comodità, da ciò che è clericalismo, da tutto quello che è l’essere chiusi in noi stessi. Le parrocchie, le scuole, le istituzioni sono fatte per uscire fuori, se non lo fanno diventano una Ong e la Chiesa non può essere una Ong». “Fuori”. “Per strada”. “Voglio casino”.

Francesco insiste su questo impeto che lo ha contrassegnato fin dal primo saluto al popolo di Roma. Fin dalle prime parole dette al cardinale Comastri dopo la richiesta «Accetti?» e altro che mani pulite e cioccolatai indignati, l’uomo è tutto qui: «Sono un grande peccatore; confidando nella misericordia e nella pazienza di Dio, nella sofferenza, accetto». Franz König, uno dei grandi principi della Chiesa, sapeva già dall’epoca del Vaticano II che «al posto dei re e dei principi adesso sono i giornalisti a influenzare i Concili». Oggi che questa influenza è diventata così pervasiva che risulta difficile distinguere la realtà dal magheggio, mentre il rumore dello spettacolo di Rio sparisce, ecco rimanere questo impeto, questa direzione tumultuosa, non ancora ben definita ma reale, di una vita che se ne frega degli schemi benpensanti e pulitini del mondo d’oggi. Voglio una vita spericolata, maleducata, esagerata. Ditelo a Vasco. Ci vediamo al Roxy Bar Francesco.


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